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El nost Milan - 1979-80

autore: Carlo Bertolazzi
regia: Giorgio Strehler
scene: Luciano Damiani
costumi: Ebe Colciaghi
musiche: Fiorenzo Carpi
    


Appunti di regia El nost Milan 1979

Rilessioni sulla seconda edizione dello spettacolo El nost Milan di Bertolazzi i confronto alla prima del 1955

Dal Programma di sala 1979/80

 

Rileggendo la breve nota che scrivemmo sul programma del 1955 ne condividiamo ancora la linea critica. C’è piuttosto da chiedersi quanto della verità di ieri, quanto delle ragioni che ci spinsero un tempo a rappresentarlo, questo Nost Milan, possono trovare riscontro nel nostro oggi.

 

Qui il pubblico sarà il critico più legittimo. Come sempre a teatro. E noi interpreti aspettiamo, come sempre, con trepidazione e umiltà questo incontro, che per noi del Piccolo ha sempre contato più di tutto. Ma anche con una interiore certezza della necessità che ci ha spinto a proporre ancora – a distanza ed in modo simile e diverso – il nostro lavoro di teatro, alla collettività. Non come patetica reliquia del passato ma come un mezzo per allacciare il passato al presente e per conoscerlo meglio.

 

Lavorando sul testo del Nost Milan, a distanza di tanti anni, quello di Bertolazzi e quello della sua riduzione per lo spettacolo, ho comparato le differenze, ho cercato di ritrovare le ragioni di certe scelte, di certi spostamenti e di certi tagli, insomma ho ripercorso il lavoro critico che feci d’impeto in un’estate del 1955, davanti alla "necessità" di una rappresentazione immediata.

 

Fu un lavoro rapido, fatto di decisioni che oggi mi appaiono perentorie e quasi temerarie. Ma fu come sempre un lavoro di amore, pieno di rispetto per l’opera, per le ragioni che l’hanno fatta nascere (almeno per quelle che io ho creduto di scorgervi) che poi ho trasformato in uno spettacolo, con voci, ritmi, scene, costumi, musiche, luci: il nostro modo di scrittura, di noi interpreti, sulle sabbie mobili del teatro di cui resta solo la traccia nel copione con freghi a matita che rimpiazzano altri freghi e altri segni.

 

Certamente la cosa che più mi colpisce – e ricordo quanti dubbi mi costò – è la decisione di recitare il Nost Milan in tre atti anziché in quattro, fondendo in uno solo due atti (il secondo e il terzo) dell’originale. C’era qui un agguato persino del "divertimento teatrale", molto sottile. Il secondo atto di Bertolazzi infatti si svolge un certo sabato "nel" cortile del Broletto. Cioè nello stesso cortile del Piccolo Teatro, fuori del palcoscenico. In quel cortile lo spettatore durante l’intervallo avrebbe potuto visitare e toccare "sul serio" muri e case dopo averle viste "per finta" sul palcoscenico!

 

Questo problema, ricordo, con la sua seduzione quasi irresistibile per il regista, soprattutto per il giovane regista che ero, fu risolto come doveva, cioè non cadendo nel gioco della teatralità e del teatro e del non teatro, in fondo così facile, nella sua apparente "intelligenza" critica.

 

Decisi di far svolgere un solo atto, nelle Cucine Economiche e là, in qualche modo, far convergere tutto o quasi tutto il testo del gioco del lotto nel cortile del Broletto. Poiché, certo, questo "gioco del lotto", questa speranza ultima dei poveri, questa eterna possibilità impossibile non poteva essere messa da parte.

 

Così là, nelle povere cucine, un sabato a mezzogiorno, con freddo e sole, con le prime sirene lontanissime di una città che si industrializza e le campane che quasi si opponevano a quel suono lungo e nuovo con il suono invece familiare che scandiva il ritmo della giornata e della vita, si parlava anche del lotto di ieri e, attraverso questo, del lotto di oggi. Si parlava di povertà e violenza (c’era violenza anche in quel giorno, c’era il massacro, alle porte, tra l’altro, di Bava Beccaris) si parlava di disoccupazione, di lavoro non trovato e tanto cercato, si parlava di miseria e di fame, di vita che costa sempre più cara, di "danee" di "cinq franc de roba" che viene ormai pagata dieci, insomma si parlava, in un frammento di umano, di una città che già correva tutta verso il disumano e già non sapeva come fermare questa corsa che ci porta al nostro oggi.

 

Questo secondo lungo atto, come una piccola sinfonia, in cui temi e controtemi si svolgono e si troncano per poi riprendere, diventava molto denso con una sua poesia aspra e sospesa, che comportava enormi difficoltà ritmiche per costruire una unità che in partenza mi pareva quasi perdersi – qua e là – nel bozzetto, nel colore locale. Su quelle tavole di legno scuro, davanti al quartino di vino e alla tazzina di minestra povera (a Parigi qualcuno scrisse che si sentiva in sala persino l’odore dei cavoli di quella minestra!

 

Mentre il Paoloeu, cuciniere di teatro, rimestava nei suoi pentoloni solo grandi nuvole di ghiaccio secco "per fare il fumo" a teatro) viveva la sua breve avventura un piccolo cosmo di "povera gent" di sottoproletariato di una città in crescita senza armonia e poca pietà, povera gente che però trova continuamente dentro, un tepore fraterno, una lombarda pudica solidarietà fatta di pochi gesti, sia una canzone accennata, sia un sorriso appena sfiorato e nascosto da parola ruvida, sia un passo che rallenta la sua corsa.

 

Certo questo lavoro di "riscrittura" che fonde due temi e due attimi di teatro distinti in uno solo, richiedeva e richiede oggi agli interpreti una estrema sensibilità negli accordi e nei registri, richiede una specie di leggerezza dei toni e dei gesti che purtuttavia mai deve andare a discapito della severità dei contenuti, della chiarezza cruda e violenta di questo grido dal fondo che è El nost Milan di Carlo Bertolazzi. È un grido dal fondo, dal fondo di una città violentata, già allora violentata, dal fondo del sottoproletariato urbano con ancora tanto di contadino che si inurba e mi viene da dire semplicemente, ancora una volta, come questo paese-città si è mosso appena nella sua storia più densa in tanti anni. Quasi un secolo. Gli "altri" Già allora, venticinque anni fa, pareva chiara la secchezza di Bertolazzi che tanto facilmente può essere presa, basta che lo si voglia, basta che ci si fermi allo schema e al modulo esteriore, per "bozzettistica", e qua e là per "melodramma". Ma mi toccava mi tocca sempre di più, la "pertinenza" "provocatoria" di questo brulicare di vita sotterranea che si dispera in solitudine, in solitudine si diverte, in solitudine mangia e muore, ma che è anche capace di amore carnale o tenero (o le due cose insieme), questa umanità che ha rapporti complessi con i suoi compagni di classe o sottoclasse e rapporti semplicissimi e diversi con gli "altri", appunto i "loro". Semplici e diretti, ma non semplicistici: gli "altri" sono soltanto gli avversari ancora irraggiungibili, gli dei di un Olimpo borghese inattaccabile che detiene un Potere imperscrutabile o, all’opposto, perscrutabilissimo.

 

Parlano del Lotto, ad esempio, come "ultima speranza", del sabato come una cosa da aspettare per poter vivere. Vedono aprirsi una tragedia se qualcuno butta lì (ed è un operaio a dirlo) che "il Lotto stanno per sopprimerlo". Uno dice: "Sopprimerlo sarebbe come buttarci in mezzo alla strada. Piuttosto occorre la riforma. La riforma della ruota. E prima di tutto cambiare il martinino" (il ragazzino del collegio degli orfani che, bendato tira fuori dalla ruota i numeri ogni sabato). Incalza un’altra: "Ma certo, cosa vuol dire questo tirare fuori, così all’orba? Bisognerebbe che ognuno tirasse una volta per uno (democraticamente, aggiungo io) i suoi numeri. Così ci sarebbe giustizia". "Tanto più che, fa ancora l’operaio, io dico che gli assessori giocano sul sicuro, conoscono la cinquina, già da ieri sera".

 

E così via scoppiano bombe di profondità che ancora oggi attraverso il dialetto di una città che lo sta perdendo arrivano – almeno così a noi è parso nel corso di tutte le prove – nella platea contemporanea, insieme quasi ad una specie di disperata e tenera richiesta di non perdere questa nostra lingua straordinaria, questa lingua-radice di una collettività, una delle tante di cui il nostro mondo è ricco ma è incapace di difendere come un patrimonio ineguagliabile, che non "divide" gli uomini ma invece li rende più ricchi, più vicini, inimitabili. Scoppiano barlumi di rivolte e di lacerazioni che ci hanno fatto constatare molto spesso in questi giorni quanta lotta è passata, quanta storia per cambiare in fondo così poco.

 

Rielaborando un testo del passato ci è sembrato insomma di sentire che il suo sottofondo non è superato, che non è allontanato come un sogno o come una memoria nel tessuto della nostra vita sociale. Abbiamo avuto il sentimento che questo Nost Milan di oggi risulterà forse più acre del previsto o di quello che prevedono i piccoli esegeti, i piccoli esegeti, i piccoli intellettuali della nuova (o mai nata) filosofia, gli esegeti del provocatorio quando esso è solo grido, disperazione, nulla. Più provocatorio perché purtroppo, con tutti i trasferimenti del caso, ancora "pertinente" alla nostra vita di uomini contemporanei. Più provocatorio perché terribilmente umano – ah! il terribile e vergognoso timore dei codardi verso la vita davanti all’umano che per essi diventa solo romanticismo deteriore o populismo da romanzo d’appendice! – terribilmente umano in un mondo che corre verso il gelo di sterminate periferie che certamente nemmeno la luce di questo spettacolo di teatro potrà cancellare o nascondere o addolcire.

 

Ma semmai ancora di più denunciare, per opporsi, per tentare di mutare, non con un gioco della nostalgia, la realtà di questa nostra città-patria-mondo, e scuoterci con infiniti interrogativi proprio sul divenire della nostra convivenza che non sappiamo più se è giusto chiamare umana e civile.

 

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